Una piccola riflessione “al di là del sintomo”
Svolgendo il mio lavoro rimango spesso molto colpito dal modo in cui alcune persone parlano dei propri sintomi. La sensazione che ho, quando sono in ascolto, è che il sintomo venga “buttato li”, abbandonato a se stesso, come se fosse qualcosa di estraneo da cui liberarsi al più presto. Quando le persone si rivolgono a me, la richiesta di aiuto si conclude spesso con la domanda di un percorso o di un prodotto miracoloso capace di contrastare e neutralizzare il sintomo stesso. Se ciò da un lato è comprensibile, a causa della sofferenza che il sintomo causa alla persona, dall’altro lo è meno dal momento che il sintomo è una parte di me che si trova in difficoltà e che sta chiedendo aiuto.
Ora, fatta salva l’utilità, l’efficacia e la necessità di prodotti farmacologici e naturali nel curare alcune forme di disagio psicologico, psicosomatico, mi permetto di generalizzare un po’ il discorso e di spendere due parole sul sintomo psicologico.
Che cos’è un sintomo?
Molto semplicemente un sintomo è qualcosa che ci fa stare male, compare in un certo momento della vita, magari un po’ a sorpresa, e determina una frattura nella continuità dell’esperienza di sé. Cosa significa questo? Che si crea una frattura tra “il prima”, quando il sintomo non c’era e la persona aveva la sensazione di “stare bene”, e “il dopo”, cioè quando il sintomo fa la sua comparsa generando scompiglio.
Spesso la persona non riesce a trovare una spiegazione a questo malessere e sente di lottare contro qualcosa di ostile ed estraneo.
In alcune situazioni il sintomo viene presentato come una semplice “avaria – incomprensibile – del corpo”, priva di qualunque relazione con la vita emotiva, come se le emozioni avessero un ruolo del tutto marginale e secondario nell’economia del problema. L’immagine che mi viene in mente, spesso, è quella di un corpo estraneo da togliere, come un dente che duole.
Ma le cose stanno realmente così?
Il sintomo è una soluzione creativa messa in atto dalla nostra mente per proteggersi da una sofferenza intollerabile.
Il sintomo è come una piccola pianta di cui ci dobbiamo prendere cura perché affonda le sue radici nella nostra interiorità, e non possiamo estirparlo come un’erbaccia che infesta il nostro giardino.
Il sintomo, e a maggior ragione il sintomo psicosomatico, riflette le strette relazioni che intercorrono tra mente e corpo, tra sistema nervoso, emozioni e personalità.
La sua comparsa segnala che c’è qualcosa che non va nel nostro mondo interno.
L’operazione di avvicinamento al sintomo, e di comprensione dello stesso, riesce nella misura in cui la persona è disposta a donare fiducia a esso.
Cosa significa donare fiducia a qualcosa che mi fa stare male?
Significa riconoscere il valore del sintomo e accoglierlo come parte della propria interiorità che si trova in difficoltà. Tutto ciò, tradotto dal psicologese, significa: “mi siedo un po’ qui con te caro sintomo, ti ascolto, vediamo cosa racconti di me!”.
Le persone che fanno il mio lavoro pongono particolare attenzione al sintomo: il sintomo non è il punto che chiude la riflessione. Al contrario la riapre. Il sintomo è un nuovo periodo del discorso: apre alla riflessione su di sé. Offre un punto di vista diverso da cui osservarsi. Per questo possiamo dire che il sintomo “offre”, “aggiunge”, non toglie.
Quindi, nella misura in cui sono disposto a dialogare (dialogo, atteggiamento di reciproca comprensione basata sul desiderio di capire e di farsi capire) con il mio sintomo, a dargli fiducia, potrò pian piano riconoscerlo (conoscere, prendere possesso psicologicamente di un aspetto della realtà), e integrarlo come parte di me.
Cosa c’è allora in quel terreno poco battuto dell’ “al di là del sintomo”?
Al di là del sintomo c’è la persona, con la sua individualità, con la sua storia di vita, con le sue emozioni e la sua personalità.
Posso capire il mio sintomo soltanto nella misura in cui sono disposto ad accoglierlo e a parlare con lui.
Aldo Carotenuto diceva che la personalità è come un’orchestra composta da tanti strumenti. Perché la musica risulti armoniosa dev’esserci equilibrio e ogni strumento deve avere la possibilità di esprimersi, partecipando alla musica.
Il nostro “Io” è il direttore d’orchestra, e ha un compito gravoso: creare armonia tra gli strumenti e far sì che la musica sia armoniosa. Alle volte ci riesce bene, altre fatica, altre ancora non ci riesce proprio.
Però un direttore d’orchestra “sufficientemente buono” si accorge quando la musica non è armoniosa, ferma l’orchestra, e cerca di capire dove sta il problema. In alcuni casi interverrà dando più spazio a qualche strumento, in altri cambierà partitura, in altri ancora chiederà di accordare gli strumenti. Solo provando a cambiare e dando il giusto spazio a tutti gli strumenti la musica ritornerà armoniosa.
Allo stesso modo il sintomo mi segnala che ci sono parti di me che vanno accolte, comprese ed integrate – armonizzate – nel mio Sé.
Concludo con un pensiero di Jung, preso non ricordo da dove, in cui diceva “la comparsa del sintomo è già una porta aperta sulla guarigione psichica”.
Sta ad ognuno di noi decidere, con coraggio, se imboccarla o meno.
Dott. Alberto Mordeglia
Dott.ssa Giorgia Benzi