Nell’estate del 1893 il pittore norvegese Edvard Munch stava passeggiando con alcuni amici nei pressi di un fiordo. Era una serata tranquilla e il sole stava calando lentamente sull’orizzonte. Improvvisamente, e in modo inaspettato, Munch viene colpito da un’intensa crisi d’ansia, forse un attacco di panico. Decide quindi di trasformare quell’esperienza emotiva in un quadro, e realizza diverse versioni della sua opera più celebre, l’Urlo (1893).
In poco tempo il quadro diventa il simbolo dell’angoscia interiore dell’essere umano e acquista un posto di rilievo tra i capolavori dell’arte occidentale.
Come se fosse una finestra sul mondo interno dell’autore, l’opera ci permette di cogliere alcuni aspetti fondamentali dell’esperienza ansiosa.
La crisi d’ansia si manifesta con un cambio repentino del clima emotivo: la tranquillità si trasforma in uno stato di tensione e di agitazione interna.
La sensazione di essere minacciati da qualcosa irrompe sulla scena psichica e getta la persona in uno stato di angoscia e tormento.
Munch immortala il momento in cui le emozioni hanno il sopravvento e la sua figura viene alterata, in una sorta di trasfigurazione, dall’angoscia. Il pittore si trasforma in una caricatura di se stesso, un “pupazzo” privo delle sue sembianze umane al punto che, nell’insieme, i passanti sullo sfondo, seppur abbozzati, conservano sembianze di umanità di cui Munch è privo.
Rappresentando se stesso come un pupazzo “fatto di occhi e bocca” sembra che Munch voglia invitare chi guarda ad identificarsi con lui, come se il senso di quell’esperienza tormentosa potesse riguardare, in qualche modo, ognuno di noi.
Sullo sfondo troviamo due passanti, due ombre, forse gli amici del pittore, che non sembrano accorgersi di nulla. C’è una distanza, infatti, tra la figura in primo piano e quelle sullo sfondo.
Si tratta di una distanza che assume una valenza “comunicativa” e “psicologica”. Cosa intendo dire?
Per “distanza comunicativa” mi riferisco al fatto che Munch sembra abbandonato a se stesso, al suo malessere, non c’è comunicazione e nessuno si accorge di quello che sta accadendo. Nonostante l’urlo avvolga, come una rete, tutto il quadro, il problema dell’angoscia sembra riguardare unicamente il pittore. Non credo sia casuale la scelta di rappresentarsi dando le spalle ai passanti.
Le persone che soffrono d’ansia, a volte, faticano ad essere comprese da chi non ha queste difficoltà. Famigliari, amici e partners possono bollare queste sensazioni spiacevoli come “cose di testa”, “di cui non preoccuparsi”, “tanto passano da sole”. In alcuni casi ciò aumenta il senso di isolamento della persona ansiosa, che avverte di non essere autenticamente compresa nel suo disagio. L’angoscia del pittore appare invisibile agli occhi delle altre persone e getta Munch in uno stato di estraniazione e di isolamento.
Munch coglie anche una “distanza psicologica”: lo stesso tipo di esperienza, una “tranquilla” passeggiata serale, viene vissuta in due modi opposti. Mentre i passanti non sembrano accorgersi di nulla, il pittore è vittima di un profondo tormento. Per la persona ansiosa anche le esperienze quotidiane più banali, come una passeggiata serale, andare a fare la spesa, guidare la macchina ecc. possono trasformarsi in situazioni angosciose.
Munch sembra sottolineare il valore dell’esperienza soggettiva di ciascuno di noi: ogni persona ha una propria personale vulnerabilità all’ansia, che la rende diversa dalle altre. La persona ansiosa può spingersi fino ad evitare le situazioni che teme. Si tratta di comportamenti che le permettono di padroneggiare in qualche modo i sintomi, a costo però di rinunce ed importanti limitazioni alla propria vita quotidiana (ad esempio andare a lavorare, al cinema o viaggiare).
La bocca, a mio avviso, rappresenta l’ombelico del quadro. Dalla bocca del pittore, infatti, si irradia un urlo che impatta sulla realtà esterna, deformandola. I colori del cielo, impastandosi, donano al paesaggio una particolare consistenza vischiosa, e creano una cappa di angoscia che altera la percezione della realtà circostante. Le linee curve, sinuose, riempiono la scena e, nell’insieme, conferiscono al paesaggio un aspetto cupo e soffocante.
Durante la crisi d’ansia la realtà esterna può acquisire una tonalità minacciosa e inquientate, i suoni possono mischiarsi, confondersi, come se l’angoscia e la confusione che la persona prova dentro di sé, oltrepassando i confini del corpo, coinvolgessero anche la realtà circostante, privandola di quel senso di sicurezza e di famigliarità che la contraddistingue nella vita di tutti i giorni.
Le mani di Munch, forse rappresentate nel tentativo di tapparsi le orecchie o di tenersi il viso, a mio avviso rappresentano il tentativo drammatico dell’Io del pittore di proteggersi da un’angoscia intollerabile: “non voglio sentire quello che esce da dentro di me”. Come un’ondata, infatti, l’ansia travolge le difese psichiche e irrompe sulla scena richiedendo spazio ed attenzione. E’ come se, tappandosi le orecchie, Munch cercasse in qualche modo di arginare una sofferenza psichica senza nome, che reclama improvvisamente la possibilità di esprimersi. L’ansia che si manifesta con questa violenza segnala spesso la presenza di aspetti di sé che, negati o misconosciuti, occorre integrare nel resto della personalità.
Questo gesto, inoltre, può essere letto come il tentativo di esercitare una qualche forma di controllo sulla burrasca emotiva che si abbatte sull’autore. In quel momento il corpo di Munch è invaso da emozioni ingovernabili, e diventa l’unico mezzo attraverso cui poterle esprimere.
Il linguaggio dell’ansia, infatti, è prevalentemente un linguaggio somatico, caratterizzato da una iper-attivazione della divisione simpatica del sistema nervoso autonomo: tachicardia, sudorazione, senso di svenimento, caporigi, difficoltà respiratorie, tensioni muscolari, difficoltà digestive ecc. Durante la crisi la persona convive con un corpo che sembra impazzito, simile ad un cavallo imbizzarito che non riesce a domare.
La persona può avere la sensazione drammatica di stare per morire o di essere sul punto di impazzire, e spesso lamenta di essere tormentata da un flusso di pensieri negativi e catastrofici che non riesce ad arrestare. Questi pensieri, di solito, causano un peggioramento dei sintomi e aumentano il timore di soffrire di un grave malore.
Munch ebbe una vita travagliata, caratterizzata da precarie condizioni di salute e costellata da numerose perdite. Forse questo quadro rappresenta un tentativo di autoguarigione: come se, trasponendo su tela la propria sofferenza interiore, Munch potesse in qualche modo riconoscerla, darle un nome, ed integrarla nella propria esperienza soggettiva.
Concludo con le sue parole che, probabilmente, valgono più di qualunque commento. Dal diario personale di Munch: “Io avverto un profondo senso di malessere che non saprei descrivere a parole, ma che invece so benissimo dipingere…mi ricordo benissimo, era l’estate del 1893. Una serata piacevole, con il bel tempo, insieme a due amici all’ora del tramonto. […] Cosa mai avrebbe potuto succedere? Il sole stava calando sul fiordo, le nuvole erano color rosso sangue. Improvvisamente, ho sentito un urlo che attraversava la natura. Un grido forte, terribile, acuto, che mi è entrato in testa, come una frustrata. D’improvviso l’atmosfera serena si è fatta angosciante, simile a una stretta soffocante: tutti i colori del cielo sono sembrati stravolti, irreali, violentissimi. Anch’io mi sono messo a gridare, tappandomi le orecchie, e mi sono sentito un pupazzo, fatto solo di occhi e di bocca, senza corpo, senza peso, senza volontà, se non quella di urlare, urlare, urlare…Ma nessuno mi stava ascoltando: ho capito che dovevo gridare attraverso la pittura, e allora ho dipinto le nuvole come se fossero cariche di sangue, ho fatto urlare i colori. Non mi riconoscete ma quell’uomo sono io [..]. L’intera scena sembra irreale ma vorrei farvi capire come ho vissuto quei momenti. Attraverso l’arte cerco di vedere chiaro nella mia relazione con il mondo, e se possibile aiutare anche chi osserva le mie opere a capirle e a guardarsi dentro”.
Dott. Alberto Mordeglia
Dott.ssa Giorgia Benzi